CONTRO LA CULTURA. INTERVISTA CON FRANCESCO PANARO

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Proponiamo un'intervista avuta con Francesco Panaro, professore a contratto di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi, dell’Ambiente e del Territorio all’Università degli Studi di Firenze

GIULIO SAPORI: Buongiorno Francesco, e grazie per concederci questa intervista.
Vorrei iniziare partendo dai Ringraziamenti contenuti nel libro, dove parli di Mimmi e Tombola, due personcine feline, molto importanti nella tua vita.
Nel loro essere non del tutto addomesticati, i gatti suggeriscono una certa insubordinazione alle regole e alle convenzioni: sono, naturalmente, “contro la cultura”. E questo è anche motivo di una certa antipatia nei loro confronti. Possiamo dire che siano tra gli ispiratori del libro?

FRANCESCO PANARO
: Gli esseri animali segnano la vita degli esseri umani, e,  purtroppo, viceversa. Mimmi, soprannominata Mimushka, e Tombola non sono state le ispiratrici del libro, ma hanno seguito gli sviluppi. Specialmente Tombola. Questo libro è nato da vari appunti raccolti negli anni e dalle lezioni del mio corso universitario.

G.S.: Il saggio si intitola “Contro la cultura”: puoi chiarire questo termine, tanto usato e tanto difficile da definire?

F.P.: La cultura è il fatto complesso dell’umanità. Una sua immagine semplificata può essere la scala di Penrose.
Se si toglie il fatto culturale si annulla quella che l’umanità ritiene sia la sua peculiarità: per cultura intendo la civiltà, dal modo di procurarsi il cibo alla tecnica di prepararlo, dall’atteggiamento o al modo di stare seduti, fino alla maniera di camminare. Il vero titolo del libro è il sottotitolo, “Esseri e universi ben invisibili”. Si potrebbe dire che il titolo “Contro la cultura”, invece, doveva essere il sottotitolo. Ma poi, nell’economia dei fatti editoriali, ha vinto la tentazione di intitolarlo con il sottotitolo.
Vorrei sgomberare il campo da un’interpretazione che potrebbe sorgere intorno al titolo: «Contro la cultura» non ha nessuna relazione con la «Controcultura». Quest’ultimo, come è noto, è il termine con cui veniva indicato un atteggiamento, un modo di essere del movimento di idee nato nel dopoguerra e attivo fino alla seconda metà del Novecento.

G.S.: Solitamente, quando parliamo di cultura lo facciamo sempre in modo positivo: la cultura, come l’istruzione, “nobilita l’uomo”, lo migliora. Il tuo libro va contro questo luogo comune. “Esseri e universi ben invisibili” significa che la cultura non solo mostra ma rende anche cechi.

F.P.: Siamo nell’epoca della scolarizzazione di massa. Ci basta camminare per strada per capire che oggi l’essere umano, nonostante sappia leggere e scrivere, ha poco di nobile o di migliore del suo predecessore.
È chiaro, il libro non parla  delle nozioni, dei libri letti, della frequentazione del teatro o della partecipazione ad incontri di filosofia o a mostre d’arte. È un’opera di “minima moralia”, un testo di teoria critica, le cose elementari della civiltà in cui viviamo.

G.S.: Questo è un punto centrale. Puoi spiegarlo meglio?

F.P.: All’inizio del libro ho citato l’esempio dei due giovani pesciolini che fluendo nell’acqua incrociano un pesce più anziano che chiede: “Ragazzi, com’è l’acqua oggi?”. I due hanno ascoltato la domanda ma hanno continuato a fluire nell’acqua e a un certo punto uno dei due guarda l’altro e chiede: “Che diavolo  è l’acqua?”. Ecco, semplificando, la cultura è quella sostanza in cui viviamo, ma non ne percepiamo l’esistenza perché non riusciamo a captarla per vari motivi.

G.S.: Una delle parole utilizzate per definire la cultura è ideologia. Nel discorso pubblico, ormai, questa parola ha un significato negativo, sinonimo di estremismo, irrazionalità. Spesso la utilizzano i divulgatori scientifici, sacerdoti dei ‘fatti’, per affossare determinati argomenti. Ma un discorso “non ideologico” è possibile?

F.P.: Ciò che accade in un dato momento non è la fine, per sempre, di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Dico meglio: può essere così, ma non è detto che lo sia. Ormai dovremmo essere abituati alla ciclicità del tutto che si ripresenta con altre vesti ed altre forme. Chi segna la parola “ideologia” come qualcosa del passato, di negativo, di estremo, sta solo costruendo la sua ideologia, la sua propria o del proprio clan.
Dobbiamo partire dal presupposto che il mondo è un atto di comunicazione, quindi di immagini – in movimento o fisse – e di parole. Chi le produce vuole ottenere un effetto concreto, ossia un certo tipo di persona che risponda ad input, a stimoli prestabiliti. Il fine è condizionare gli individui a fare scelte organiche, aderenti al sistema che le promuove: sia che tu faccia scelte politiche contro l’immigrazione, sia che tu entri in un supermercato per scegliere il cibo che poi ti nutrirà. Se tutto ciò non è ideologia…
Oggi, quando parlano di ideologia, il riferimento, nella maggior parte dei casi, è al marxismo, al comunismo, mai ai piccoli e grandi gruppi di potere che insegnano a decidere come comportarsi… Le democrazie oggi fanno immaginare all’individuo che è libero di scegliere. E in realtà può sembrare che sia così, quando in fondo, le persone scelgono su un “menù” già prestabilito, imposto. Questa è ideologia.

G.S.
: Al che mi viene da domandare: cosa significa pensare liberamente? Quante volte ci siamo sentiti dire che dobbiamo “pensare con la nostra testa”? È possibile? Come può il pensiero, strutturalmente alienato in pratiche e linguaggi, carichi di significati (cioè di ideologie), autonomizzarsi?

F.P.: Io penso che le persone ci debbano mettere buona volontà, debbano concentrarsi a scegliere il modo migliore di comportarsi e di vivere, nel rispetto degli altri. In questo ci metto il non commettere il male: agli animali, alle persone, all’ambiente, insomma, alla natura. E in generale devono scegliere di commettere il male minore nelle piccole cose. Ma non credo sia possibile arrivare ad un punto “originario” del pensiero.

G.S.
: Pensare liberamente, quindi, lo concepisci maggiormente legato all’etica che non all’accumulo di conoscenze e ragionamenti?
Questo mi richiama alla mente Hannah Arendt, quando dice che il criminale nazista Adolf Eichmann era, fondamentalmente, un uomo banale, che parlava per frasi fatte e agiva senza pensare.

F.P.: Questa domanda ci fa capire che la via è piena di rovi. Voglio dire, no, non credo che il pensiero etico possa fluire più facilmente da una mente priva di conoscenze e ragionamenti. È possibile, ma non è detto. Il pensiero etico ha bisogno di riflessione e confronto costante con il mondo. Come non è ovvio che la conoscenza, quella che viene insegnata a tutti i livelli scolastici del mondo, faccia nascere una nuova umanità.
La personalità di Eichmann disegnata da Hanna Harendt la possiamo applicare a ognuno di noi. Parlare con frasi fatte e agire senza pensare è una scorciatoia umana. È una tentazione latente con cui l’essere umano deve costantemente confrontarsi.

G.S.: Nel libro traspare del pessimismo, soprattutto nella concezione ‘gattopardiana’ della cultura, che cambia affinché nulla cambi. I cambiamenti strutturali, infatti, sono osteggiati e vengono concessi solo dei cambiamenti di forma, di design, i quali sono funzionali al mantenimento della statu quo. In questo panorama, la pubblicità si mostra spesso più progressista di tanti politici progressisti  quando ci offre, per esempio, merci più etiche. È possibile uscire da questo ‘eterno ritorno dell’uguale’?

F.P.: Come sappiamo la pubblicità non è al servizio dell’etica, ma della merce ed una serie di altre cose. Spesso la pubblicità sembra molto avanti, ma lo fa solo per addomesticare all’industria le tendenze della vita sociale. Ci sono i disabili, i gay, le donne e gli uomini in carriera, i lavoratori, i single, o i divorziati che provano a fare i bravi genitori… Salvo farsi stanare dalla figlioletta a cena che contesta che la pasta è buona solo perché la Barilla l’ha fatta più buona, come dice la réclame di questi giorni.
Sul pessimismo, Mario Morcellini mi ha benevolmente accusato, e io gli sono molto grato, di portare il lettore in sospensione, in bilico sul bordo di un orrido. È vero, è ciò che ho fatto. “Contro la cultura” è un piccolo saggio di filosofia della cultura e, quando si scrive di filosofia, non si può essere rassicuranti altrimenti si scade nell’intrattenimento, nella furbizia di scrivere qualcosa affinché poi sia venduta. Il mio tentativo – semmai ci sia veramente riuscito ­– è stato quello di portare sul ciglio dell’abisso, alla fine della terra, per costringere chi legge ad ulteriori domande scomode. Altrimenti si scrivono filastrocche ad uso e consumo dell’era di internet. E io non mi sento un membro dell’«Italian theory». Almeno, io non mi sento tale. Voglio dire che non ci si può sentire al sicuro, non si può immaginare di sentirsi a casa leggendo di filosofia, con i gerani alle finestre, il fil di fumo che sale dal camino e il pendolo che scandisce le ore. Per quello ci sono i romanzi, e buona parte del resto della letteratura.

G.S.: Un altro tema, nel libro, è quello della derealizzazione del mondo, di cui l’esempio forse più attuale è il gioco dell’estate Pokemon Go, dove le persone vedono gli animaletti nella realtà, ma attraverso le lenti di un’applicazione dello smartphone. Cosa ne pensi di questo gioco?

F.P.: Il gioco è un adattamento a un ambiente che non c’è. E possiamo anche dire che il gioco è sempre un prolungamento fantastico nella realtà circostante, è una nostra invenzione che mettiamo alla prova, che ci mette alla prova. Nel luogo che noi intendiamo il migliore del mondo ricreeremo un ambiente che non c’è. Il gioco è il nostro frastuono antropocentrico. Dovrebbe essere il momento di interruzione, di tregua, invece è il prolungamento feroce della vita di tutti i giorni. Il calcio ne è l’esempio elementare, come tante altre attività sportive o ludiche.
Però io voglio vedere il lato buono di Pokemon Go, che non è la playstation che costringe su un divano milioni di bambini e adulti a giochi sedentari lontani dalla vita pratica: Pokemon Go ha messo l’attrito che manca a tanti giochi elettronici, ha portato fuori di casa milioni di persone. Io, nonostante tutto, l’ho compreso come una specie di caccia al tesoro di un altro tempo, con l’aggiornamento tecnologico. Con questo non sto dicendo che dobbiamo giocare a Pokemon Go. Dico solo che ho visto un cambiamento, momentaneo, di “ritmo”, come spesso l’industria fa. E che la «realtà», uccisa e buttata fuori dalla porta, a volte, come in questo caso, rientra dalle finestrelle del videogame. Ma tutto ciò che sto dicendo dobbiamo interpretarlo in relazione con ciò che oggi è la vita, priva di esperienza pratica, resa liscia come un lago ghiacciato.
Poi, certo, non possiamo non prendere in considerazione tutte le implicazioni della privacy nonché le trappole che l’industria dell’intrattenimento ha nascosto in quel gioco. Però, ormai, non mi preoccuperei più di Pokemon Go, che è passato dal successo iniziale all’immediata scomparsa dalla scena. È già in soffitta, scomparso fra gli infiniti oggetti della nostra memoria dell’istante.

G.S.: Vorrei chiederti, per concludere, libri, film o esperienze che, a tuo parere, possono aiutarci a rendere questi “esseri e universi ben invisibili” un po’ più visibili.

F.P.: Un testo non eccessivamente complesso. Nel libro La scuola di Francoforte c’è un paragrafo di Horkheimer, La teoria critica ieri e oggi. Ma leggerei anche Dialettica dell’illuminismo, scritto con Adorno. E, non escluso, Il discorso sulla servitù volontaria di Étienne de la Boétie.

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